sabato 31 maggio 2014

Drama - Once and for all

Luca Trabanelli. Non so a quanti di quelli che stanno leggendo l’intervista, questo nome possa risultare familiare, ma di sicuro per tutti quelli come il sottoscritto, quelli sopra gli anta, che hanno vissuto la prima vera ondata del metallo italiano, il nome di questo musicista di casa nostra, rimane indissolubilmente legato a gradevoli ricordi, sogni e nostalgie dei magici anni ottanta, e di tutto quello che hanno voluto e saputo significare, nonché a quello di due ottime formazioni del circuito tricolore dell’epoca, ovvero i primi movers Hocculta, veri e propri capostipiti del metal tradizionale di casa nostra, e i cult heroes Drama, affascinante melodic rock band meneghina artefice del piccolo capolavoro oscuro “Once and for all”, disco ai più praticamente sconosciuto, ma di assoluto valore artistico.

Ciao Luca, allora la prima domanda che mi preme porti è : ma che cosa hai combinato in tutti questi anni di mancanza dalle scene italiane? Lo sai che erano anni che ero alla tua ricerca?
Nel 2001 ho smesso di lavorare nel mondo della musica, credo più o meno definitivamente. Fino ad allora ero consulente musicale per Mediaset e Rai, ho prodotto gruppi di vario genere, ho fatto il turnista sia in studio, sia dal vivo.
Ho insegnato chitarra a un sacco di simpatici allievi; avevo anche un progetto musicale in corso, che si è disciolto proprio mentre si era lì lì per fare qualcosa di più di un semplice album. Diciamo che ora vivo la musica in maniera più tranquilla, suono per mia figlia, che ora ha nove anni. Quando ho voglia, ho ancora qualche amico per una jam e una birra. Ora vivo a Ferrara da circa dodici anni, è stata una scelta di vita, e allontanarmi dalla grande città ha comportato una serie di notevoli cambiamenti nella mia vita…..ma non voglio tediarti con queste cose!

Ok, adesso facciamo un salto indietro di una trentina di anni, ti và? Siamo nel primo periodo con gli Hocculta, quindi, come ed in quale occasione incontrasti gli altri ragazzi della band?..e se non è troppo, come mai la scelta di un nome così particolare? C’era veramente qualcuno all’interno della band che era interessato a pratiche di natura esoterica?
Mi sa che è un po’ di più di trent’anni, era circa il 1982 e conoscevo Tony e Massimo separatamente, dovevo solo farli incontrare. Massimo era dotato di una voce e di un talento particolare per il canto. Solo più tardi, e non riesco ancora a darmi una spiegazione, cercò di assomigliare più possibile a Klause Maine. Tony era un bassista eccezionale e una cultura musicale fuori dalla norma. Chato Buratti (drums) venne contattato per ultimo, ci incontrammo tutti un bel giorno al Discotto, un negozio di Sesto che era forse l’unico a vendere vinili di un certo genere. Il nome venne fuori tra una miriade di altri (Tony diceva che voleva almeno una “H” nel nome) e per quanto riguarda l’occulto, sia io che Tony, eravamo interessati alle letture di quel genere, ma solo da un punto di vista occasionale, diciamo più per curiosità che altro. In quel periodo band come Black Sabbath erano un punto di riferimento non solo per il suono, ma anche per i testi e per gli atteggiamenti.
Inoltre io adoravo i Led Zeppelin e Jimmy Page era come un padre mai incontrato per me, e lui era molto coinvolto dall’esoterismo.

Toglimi una curiosità, in tutti questi anni, ho sempre visto il nome degli Hocculta associato alla versione italiana degli Scorpions, ma secondo te, questa somiglianza era dovuta più al fatto il cantato di Massimo Lodini era molto simile a quello di Klause Maine, o perché proprio la musica ricordava quella del quintetto teutonico? No, te lo chiedo perché ricordo che ,se no ricordo male, il song writing della band era quasi di tuo totale appannaggio, è così?
Credo che la somiglianza sia dovuta esclusivamente alla tendenza di Massimo di cantare come il crucco. Non tanto perché la maggior parte della musica l’ho scritta io, ma le nostre influenze musicali erano molto distanti dal gruppo tedesco. Marco adorava Ted Nugent e la stella nascente Adrian Vanderberg, Chato tutto ciò che suonava a più di 220 bpm, io e Tony eravamo il lato oscuro della forza; Black Sabbath e Ozzy in testa.

È vero, che prima della pubblicazione del disco di esordio, e prima ancora di “In The Vault”, avevate registrato una demo pregna di sonorità, diciamo, più heavy/dark?
La formazione a quattro fù il periodo, per me, più bello e produttivo. Nel primo demo il suono era decisamente “seventy”, oscuro e pesante e le songs avevano una scrittura più atipica rispetto la tradizione metal che seguì. Io e Tony abbiamo sempre odiato la formula strofa/strofa/ritornello e in quella band io ho sempre cercato di evitare di cadere nel banale, non sempre ci siamo riusciti. L’evoluzione a due chitarre con l’innesto di Marco Bona portò inevitabilmente gli Hocculta ad avere un suono più “tedesco”, e la somiglianza con band tipo Scorpions, Accept e i Judas Priest (anche se inglesi il sound era quello) dell’epoca si fece concreta.
Il periodo della sperimentazione era finito con la definizione della line-up…era il momento di vedere se dal vivo eravamo l’inferno sulla terra che promettavamo di essere in sala prove.

In che maniera arrivaste alla pubblicazione del vostro primo lp “Warning Games” edito dall’allora attiva Discotto? Se non ricordo male proprio Tony Chiarito lavorava già per quell’etichetta, vero?
Tony lavorava per la Discotto (che oltre al negozio, era anche etichetta), che produceva soprattutto dance fuffa e cacate simili. Convincemmo l’etichetta ad aprire un po’ la mente (e le tasche) e inaugurammo la linea arrabbiata della Discotto, la Discottometal. Non fu così semplice a farsi, perché il budget era molto basso e necessitavamo di ulteriori fondi per entrare in studio. A quel tempo non esistevano le tecnologie attuali, bisognava affittare uno studio e all’epoca era una spesa decisamente alta.

Quindi si trattava pur sempre di un disco auto prodotto dalla band, è cosi?
Dal punto di vista artistico, si. L’etichetta non poteva aver voce in capitolo, in quanto le produzioni della Discotto erano di tutt’altro genere, e non avevano nessuno che avesse l’idea di una produzione metal. Noi avevamo un impasto piuttosto amatoriale e il più grosso aiuto venne direttamente dai fonici residenti dello studio. Il mitico studio BIPS divenne il sancta santorum delle band rock e metal negl’anni successivi, anche perché dopo la registrazione di “Warning games”, io cominciai a lavorare lì come fonico.

Che ruolo aveva avuto il buon Enrico Ballo in tutto questo? Era solamente un produttore da studio, o meglio ancora un produttore esecutivo?
Enrico era un fan della band. Ne più ne meno, non aveva la più pallida idea di come si producesse musica e inoltre non era neppure un musicista. Era un imprenditore e volle buttare un po’ dei suoi soldi e del suo tempo nel progetto. Era più un manager che altro. Anche se la sua figura non aveva niente a che fare con l’aspetto artistico della storia, senza di lui gli Hocculta non sarebbero neanche arrivati al primo demo, era un grande motivatore.

Ed invece chi era realmente per la band Fabrizio “Bot” Bottini? Solo un paroliere, o il sesto membro effettivo del gruppo?
Bot era prima di tutto il migliore amico, siamo cresciuti insieme, mi ha insegnato ad ascoltare ogni tipo di musica da punti di vista diversi. Era un pozzo di scienza nel campo, una specie di Rick Rubin che sapeva sempre cosa funzionava e cosa no in un brano. Era effettivamente il sesto, e il suo giudizio era sempre fondamentale in qualsiasi scelta. Possedeva l’innata qualità di fare ogni cosa sempre nel modo migliore. Nel 1987 pagò con la vita l’unica cosa in cui non eccelleva: guidare. Bot mi manca moltissimo e anche se sono passati vent’anni, la ferita fa sempre male.

Come mai sceglieste proprio un’iguana per il front cover del vostro debutto? Appassionati naturalisti, o cosa?
Semplicemente non volevamo la solita copertina da “metallo” con draghi, elfi e puttanate varie. Volevamo qualcosa di diverso, dove la gente si chiedesse il perché di una scelta tanto strana. In effetti un significato c’è, ma verrei meno al giuramento se lo svelassi, anche dopo tutti questi anni.

Quale era l’aria che si respirava all’interno della band in quegli anni? Ricordi ancora qualche concerto memorabile della tua prima esperienza artistica?
Era meraviglioso, sapevamo di essere una grande band, molti ci prendevano ad esempio, il riconoscimento lo si capiva dalle fanzine dell’epoca: non c’era numero dove non ci fosse un articolo su di noi. Inoltre capivamo di cavalcare la prima onda, quella fondamentale di qualsiasi movimento socio-culturale e/o artistico. Lo so, esistevano i Vanadium da un bel po’, ma per qualche motivo la gente non li cagava, la vera rivoluzione furono Hocculta, Strana Officina, Revenge, Bulldozer che portarono aria nuova nel panorama underground del metal italiano.
I concerti erano tutti eventi affascinanti, con molto entusiasmo da parte dei fans; ne ricordo uno in particolare, in prov. di Pavia, era un festival di due giorni con praticamente tutti i gruppi di quel periodo. Da headliner della seconda serata, tirammo fuori dal cilindro uno show galattico.

A proposito di Hocculta, non so se sai del come back estemporaneo della band con a capo il solo Lodini, sei stato in qualche modo messo a conoscenza di questo ritorno, hai avuto modo di parlarne con qualche altro ragazzo della band, o ritieni quella esperienza un capitolo chiuso?
Non ne sapevo nulla, lo so da te adesso! Ogni tanto incontravo Tony, perché abitavamo abbastanza vicini, e talvolta l’idea di una reunion saltava fuori, ma mai seriamente.

Come mai ad un certo punto della carriera decidesti d’abbandonare gli Hocculta per dare vita ai più melodici Drama? Ricordo che qualche fan della band ti additò come traditore, di aver lasciato la band solo per seguire i trend del momento, ma cosa c’era di veramente importante dietro quella svolta? Solo voglia di sperimentare nuove soluzioni sonore, o cosa?
Dunque, andiamo con calma. Gli Hocculta, che nel frattempo avevano sostituito il drummer Chato Buratti con Daniele Pobbiati, erano arrivati ad un punto morto dal punto di vista compositivo. Non riuscivamo ad avere un focus comune. Ricordo che le ultime cose scritte erano delle vere porcherie, erano pressoché plagi di bands famose e anche le direzioni musicali erano le più disparate. Non sentivo più il senso di appartenenza e penso che fosse così anche per gli altri della band. Decisi di congedarmi, e contemporaneamente (dopo un paio di mesi) Renzo Sgroi, bassista dei R.A.F., grande amico nonché compagno di sbronze, mi chiese di unirmi alla sua band. Furono un paio d’anni di transizione tra Royal Air Force e leva militare, la morte di Fabrizio e la ineluttabile crescita di esperienze umane, sociali, artistiche, lavorative che una persona sopporta nell’arco di un periodo così importante come erano i miei vent’anni. Dopo un periodo di sonnolenza, il risveglio avvenne anche grazie alla frequentazione di un bassista, Luca Bona, fratello di Marco, ed insieme decidemmo di mettere in piedi una band. Ho suonato con tante persone nella mia vita, ma se dovessi scegliere il compagno definitivo sul palco, questo sarebbe senz’altro Luca Bona. 
Anche in questo caso, in che maniera incontrasti i ragazzi della band, e come nacquero i Drama? Ma Mario Riso dei RAF faceva già parte del primo nucleo del gruppo, o fu invitato solo come special guest sul disco?
Incontrai Ronnie e J.L. casualmente. Loro suonavano in un’altra band e dopo un periodo di confusione la line-up era pressoché definita. Mancava un batterista con esperienza anche di studio, e Mario Riso mi doveva il favore di averlo scoperto e portato nei R.A.F., così gli chiesi se poteva almeno registrare il disco. Già mentre mixavamo l’album, Paolo Martella divenne il batterista ufficiale dei Drama.

Un album che ti vedeva impegnato in prima persona anche per quel che riguarda l’aspetto della produzione, è cosi?
Io lavoravo in studio di registrazione da diverso tempo e sapevo che l’impegno più importante era la produzione vera e propria. Me lo sono accollato senza accorgermene, tanto dietro al mixer ci stavo tutti i giorni per altre persone, e farlo per i Drama mi sembrò normale. Non sono mai stato comunque, l’unico a prendere decisioni nella produzione dell’album; ogni passo importante veniva fatto in accordo con la band.

Mi parleresti di come nacquero canzoni memorabili come \"The Magic Of Rock\", \"Inner Life\" o il vero capolavoro \"I\'m The One\", che vedevano una band effervescente dotata di un piglio melodico davvero innato?
Beh, ”I’m the one” era un brano ereditato dalla precedente band di Ronnie, anche se la nostra versione era praticamente un brano diverso e forse solo l’inciso poteva assomigliare alla song originale. Magic era un riff che continuavo a suonare, ma non riuscivo a sviluppare delle strofe adeguate. Ci misi un paio di mesi solo per elaborare tutto il brano e devo ringraziare l’influenza di un tale Eddie Van Qualcosa che mi aiutò a completare l’opera. Se devo essere onesto non ho dei ricordi particolari legati alla creazione delle singole canzoni; fu tutto l’intero periodo della vita dei Drama ad essere per me, felice e creativo. Suonavo con grandi amici la musica che desideravo suonare in quel momento, e per me era abbastanza.

Toglimi una curiosità, ma il lotto di brani registrati per il vostro debutto, furono utilizzati tutti per il disco, o c’è qualche pezzo che non utilizzaste e che ancora giace in qualche cantina ammuffita?
Che ne diresti di un secondo album dal titolo “Sink or swim” mai uscito e il master tuttora nel mio garage a prendere umidità?

In che maniera venne accolto all’epoca il disco sia dalla stampa specializzata che dai fan del metal melodico di allora?
Col senno di poi, non penso che fossimo una band metal, suonavamo un rock incazzato ed eravamo più aperti nei confronti di altri generi musicali. Ad ogni modo le recensioni furono tutte positive e i concerti sempre apprezzati.

Se non sbaglio la band ebbe la grande opportunità di affiancare su qualche prestigioso palco nostrano, addirittura gli eroi nascenti Bonfire, è così? 

Si, e forse gli rubammo pure la scena. Cosa che non piacque particolarmente al manager dei“grandi” Bonfire. In effetti eravamo un act molto pirotecnico dal vivo, ci divertivavamo parecchio.

Nonostante una track list perfetta in ogni punto, ed una distribuzione abbastanza capillare da parte della Metalmaster di Milano, “Once and for all” è tutt’ora uno dei dischi più oscuri della scena italiana, ti sei mai spiegato il perché?
Non so cosa intendi per oscuro, ma il motivo di una certa insabbiatura dei Drama c’è l’ho. All’epoca il responsabile della distribuzione della Metalmaster era Alberto “Wild” Contini, bassista e cantante dei Bulldozer, e tutto ciò che non era trashmetal o speedmetal veniva messo in secondo piano. Non c’è l’ho con Alberto, ma questo è sicuramente il motivo fondamentale per cui i Drama non hanno potuto avere una “visibilità” come altre bands dello stesso periodo.

Molti affezionati della scena metal italiana degli anni ottanta, alla voce hard rock melodico, associano con facilità gli Elektradrive di Torino, autori comunque di tre splendidi album, ma mai i Drama, secondo te perché?
Forse perché gli Elektradrive hanno fatto meglio di noi.

Chi è il vero depositario di quel master? Non ti hanno mai offerto, o non hai mai pensato, di ripubblicare quel disco, magari con l’aggiunta di qualche bonus song?
L’unico padrone di quel master è l’etichetta, se esiste ancora. Non mi hanno ancora offerto una riedizione, ma ti ho già detto che ho il master di un disco mai uscito in garage….e mai dire mai!

Come mai lo split avvenne in maniera così prematura? Sai, in molti si aspettavano il grande salto dopo aver composto brani di qualità come quelli del vostro disco d’esordio.
Eravamo giovani e un po’ pirla tutti quanti; io, Luca Bona e Paolo Martella ci trasferimmo negli Stati Uniti per fare proprio quel salto di cui parli, ma in un paese straniero. Nella vita volevamo fare ciò che sapevamo fare meglio e questa cosa era suonare. A Los Angeles fu l’esperienza che ogni musicista desidera avere, ma questa è un’altra storia e magari ve la racconto la prossima volta……

Toglimi una curiosità, sai che fine ha fatto Ronnie Alberti? Ricordo una sua partecipazione all’interno degli Iceberg degli ex Vanadium, e del suo disco con i Love Machine “The Nite”, poi niente, che tu sappia vive ancora a Milano? E gli altri membri del gruppo, sei ancora in contatto con qualcuno?
Le uniche persone che sento ancora sono Paolo e Luca, degli altri due ho perso qualsiasi traccia. Non mi dispiacerebbe incontrarli di nuovo, affatto. Sapevo che Ronnie suonava con i resti dei Vanadium, ma poi ci siamo persi di vista.

Se non ricordo male, proprio il vostro secondo drummer Paolo Martella, divenne abbastanza famoso come cantautore pop, sulla falsariga del buon Neffa, è così?
Paolo tornò dagli Stati Uniti quasi subito per seri motivi familiari. Una volta in Italia scelse una strada differente e fece nascere i Quartiere Latino. Paolo era ed è mio amico, per cui qualsiasi cosa avesse deciso di fare per se, a me andava bene comunque.

In tutti questi anni, in che modo è cambiato il tuo approccio con la musica rock in generale? La musica metal, fa parte ancora della tua vita? Ascolti ancora qualche bel vecchio vinile di Saxon o Maiden?
Ora possiedo circa 55.000 album su hard disk, cd, mp3 e supporti digitali vari. Il vinile mi manca moltissimo, ma che dire, il mondo cambia e anche il mercato della musica è cambiato. Ormai il brano musicale viene tradotto in dati digitali e buttato in rete; il web è diventato lo studio di registrazione, l’etichetta, il negozio e il fruitore finale dell’opera, tutto su un\'unica piattaforma planetaria.
Questo pianeta bastardo è cambiato da venticinque anni fa e forse non riesco più a stargli dietro, sto diventando vecchio, ma il primo brano che mia figlia ha sentito fuori dall’utero materno è stato “Since I’ve been loving you” dei Led Zeppelin: aveva solo quattro ore di vita! Comunque ascolto al 95% ancora rock, Steve Vai e Dream Theater soprattutto; Saxon e Maiden non mi facevano impazzire allora, figuriamoci adesso.

Pensi che, con tutta l’esperienza che hai accumulato in questi anni e con l’avvento delle nuove tecnologie, oggi sia Hocculta che Drama avrebbero avuto vita più facile?
Forse si, ma penso anche che sia cambiata la richiesta di musica da parte della fascia più giovane del mercato. Trent’anni dopo siamo la nazione del grande fratello, tutto è televisivo, anche ciò che non lo è. I media comandano e purtroppo non ci puoi fare niente, sono diventati un mostro impossibile da distruggere. Sono orgoglioso di far parte di una generazione dove risparmiare una settimana ti permetteva di comprarti il vinile il sabato pomeriggio. Il vinile era fisico, lo toccavi, lo annusavi, passavi ore a guardare la copertina alla ricerca del particolare e quei tempi non torneranno mai più.
Tutto, compreso la musica, è diventato effimero, intangibile. Immagini e suoni compattati che diventano insiemi numerici, megabyte di dati il cui flusso è ingestibile e indigeribile. Ho paura a pensare a cosa saremo tra altri trenta.

Progetti personali per il futuro?
Sono circa otto anni che lavoro ad un album, dove suono tutto io, musica sperimentale e ricercata, roba da mal di testa insomma…spero un giorno di finirlo.

Grazie Luca per averci donato un po’ del tuo prezioso tempo, concludi l’intervista nel modo che più ti aggrada….
Sono indeciso tra queste due varianti;
Primo finale:
Tra qualche anno mia figlia verrà da me e dirà:
“Papi, esco con uno che ha la cresta e suona in un gruppo punk!”
e io…
“Grazie a Dio, non è il solito impiegato di merda di una banca del cazzo come tutte le tue amiche!”
Secondo finale:
Tenete viva la fede, a tutti i costi, imbracciate le vostre Flying V e combattete!!!
Luca Trabanelli

(Beppe Diana) 

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