martedì 4 febbraio 2014

Heartland - Heartland

Come abbiamo avuto modi di dire in più occasioni, la scena melodica inglese è sempre stata caratterizzata dalla capacità di musicisti ricchi di talento che hanno avuto sempre il gran rimpianto di essere nati dall’altra parte dell’oceano, anche perché forse, e ripeto forse, partire con l’handicap di dover conquistare e scalare le classifiche di preferenza del popolo melodico americano, partendo da una nazione associata ad un genere musicale tendenzialmente contrastante come l’heavy metal classico, non sarà stato certo facile.

Dare, Stangeways o gli stessi FM solo per citarne alcuni, erano tutte formazione che, nonostante il valore intrinseco e la qualità di una proposta musicale di alto rango compositivo, non hanno mai goduto dell’appoggio incondizionato del pubblico e della stampa specializzata, soprattutto per quel che concerne quello del vecchio continente, finendo inspiegabilmente per perdersi nell’oblio dell’indifferenza, riesumati successivamente da piani aziendali che, ben poco, hanno da spartire con il puro spirito artistico degli esordi.
Ma a Chris Ousey tutto questo non è mai andato giù, no, lui è sempre stato un musicista testardo ed ostinato nel cercar di voler perseguire un sogno, il suo sogno, che si protraeva addirittura dal disco d’esordio dei suoi Virginia Wolf, sorta di big band a torto considerata di seconda fascia che, nonostante la pubblicazione di due ottimi platter, era rimasta inspiegabilmente al palo per anni, lasciando, nella memoria degli appassionati di certe sonorità adulte e radiofoniche, ben più di un semplice rimpianto e qualche rimorso.

Rammarico questo che, comunque, si protrarrà solo per qualche anno, e cioè fino all’uscita del debutto discografico dei qui recensiti Heartland, formazione che raccoglieva nella propria line up ufficiale, alcuni degli strumentisti più quotati della scena musicale inglese dell’epoca, come ad esempio il chitarrista Gary Sharpe, co-autore assieme allo stesso Ousey, di tutti i brani del disco in questione, edito nel lontano 1990 sotto l’egida della A&M records che, credendo molto nelle potenzialità commerciali della band in questione, li aveva affidati alle cure dell’esperto producer di caratura internazionale James ‘Jimbo’ Barton, celebre per il suo lavoro svolto alla corte dei Queensryche dell’epoca d’oro, e che, naturalmente, rappresentava per i nostri quell’ipotetico trampolino di lancio verso quell’agognato successo da più parti auspicato.

Ed in qualche modo è proprio l’egregio lavoro dietro alla consolle del maestro americano a fare veramente la differenza, provate ad ascoltare i successivi dischi della band inglese, e capirete di cosa stiamo parlando, impreziosendo un versante compositivo comunque di spessore, che poteva contare sull’apporto di brani dall’appiglio melodico come la splendia “Fight the fire with fire”, soffusa e suadente nei suoi richiami volutamente soul, che non possono non ricordare i Foreigner di “Agent Provocateur”, la soave ‘Teach You To Dream’ che apre in maniera magistrale il disco, o le scansioni funky rock di “Paradise”, caratterizzate da un grande lavoro dietro ai tamburi di uno Steve Gibson, che ritroveremo al suo posto qualche anno e qualche disco più tardi.

‘Carrie Ann’ intensa ed emozionante, sensibilmente affine allo stile melodico degli allora cugini di etichetta Dare del capolavoro di debutto, aggraziata da una prova vocale veramente da brividi, e da melodie delicate ma mai scontate, insieme alla sublime “Paper Heart” impreziosita dal guitar working di uno Gary Sharpe che si conferma più che mai come un abile cesellatore di melodie d’inaudito splendore, sono due altre splendide gemme che rafforzano ancora di più il valore intrinseco del disco, anche se, prima ‘Promises’ con il suo inconfondibile stile cromato che richiama sia i Giuffria che i White Sister, che ‘Walking On Ice’ che che media la classe dei Glass Tiger e la ricercatezza melodica dei Diving for Pearls, non sono certamente da meno.

Ma com’è facile da prevedere, nonostante un dispiego di forze in campo di questa portata e, ripetiamo, una qualità intrinseca di song wrtiting veramente elevata, “Hearland” il disco, passò inspiegabilmente inosservato, sovrastato dalle critiche poco indulgenti ricevute da gran parte della critica discografica, Kerrang incluso, che porto la formazione a sfaldarsi come neve al sole, con il solo Ousey a rimanere per anni al timone del veliero inglese, supportato dal polistrumentista Steve Morris, con il quale pubblicherà i mediocri “Wide Open” prima, ed il seguente “III” dopo, prima del grande ritorno “Bridge of Fools” su etichetta Escape.

Che dire, un disco semplicemente perfetto, suonato divinamente, prodotto con altrettanta maestria, caratterizzato da dieci composizioni sopraffine, e da scansioni radiofoniche ed armonizzazioni melodiche da far accapponare la pelle…. Fatelo vostro, sempre che lo troviate in giro…..
(Beppe Diana)

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