Uno
dei classici minori della scena Adult Oriented Rock, il debuttto,
nonchè unico parto discografico, dei newyorkesi Red Dawn, rappresenta
senz'ombra di dubbio il classico fenotipo del disco sottovalutato e
denigrato dai media all'epoca che meriterebbe, almeno questo, di essere
riascoltato e comparato con l'enorme quantità di platter più o meno
validi che nell'ultimo periodo si accalcano con sempre più foga sulle
pagine dei magazine nostrani, e dai quali si differisce sensibilmente
per l'enorme mole di ottimi fraseggi in campo puramente musicale nonchè
per il gusto compositivo messo in mostra da questo ensamble di cinque
elementi.
Uscito nell'anno di grazia 1994, ovvero quando tutto il mondo
discografico sembrava essere attratto da ben altre sonorità e proposte
artistiche, Never Say Surrender rappresentava, e forse rappresenta
ancora, quanto di meglio una band dedita ad una riproposizione quasi
pedissequa dei dettami melodici possa essere in grado di offrire fra le
trame di un unico disco, ovvero una manciata di brani tecnicamente e
strutturalmente ineccepibili, conditi da aperture melodiche veramente ad
effetto, ritornelli irresistibili e refrain altamente ineccepibili,
tutto condito dalla classe innata in possesso da questa vera e propria
big band. Infatti i Red Dawn, formati attorno al talento artistico,
musicale e compositivo del maestro dei tasti d'avorio David Rosenthal,
famoso per il suo trascorso alla corte del man in black per eccellenza
Ritchie Blackmore e dei suoi Rainbow, potevano contare sull'apporto di
un manipolo di musicisti d'alto rango come il vocalist, ed ex Network,
Larry Baud dotato di un timbro vocale caldo e suadente, del
misconosciuto, ma tecnicamente eccelso, guitar hero Tristan Avakian,
nonchè dell'apporto ritmico della coppia Chuck Burgi e Greg Smith,
entrambi musicisti dai trascorsi in band come Zeno, Joe Lynn Turner e
chi più ne ha, più ne metta.
Il risultato di questo fortunato
sodalizio è un platter fantastico che racchiude in ben dieci episodi,
influenze musicali che vanno dall'hard rock virtuosistico e tecnico dei
Van Halen, al pomp rock dei Giuffria, Prophet e House of Lord, alle
propensioni class metal a stelle e strisce dei vari Dokken, Ratt e Lion,
per un risultato finale pregno di vitalità emotiva, e pura magia
compositiva Il trittico iniziale con cui la band si presenta al suo
pubblico è veramente da infarto: infatti a partire dall'opener Flyin'
High, la band ci offre tutto il meglio del proprio repertorio rendendoci
partecipi di un assalto sonoro perpetrato sulle note infuocate di una
chitarra graffiante lanciata su scale armoniche e guitar lick memori dei
migliori maestri d'ascia della decade passata, tastiere suadenti e
sempre più presenti che tessono ricami ritmici di gusto, ed una voce
possente, roca al punto giusto ed in grado pur sempre di ritagliarsi una
posizione di rilievo all'interno di un songwraiting ispirato come non
mai, e che fa di brani come la seguente I'll Be There che, pur
presentando una partenza più prettamente soffusa fra arpeggi tipici di
Journey/Bad Company, si inalbera attorno ad un crescendo emozionante,
poi esplodere in tutta la sua fragorosa potenza attorno al bridge
centrale, e dell'incalzante Liar, class metal metal puro ed
incontaminato caratterizzato da un chorus trascinante ed orecchiabile e
da un'insieme di solos vorticosi, un perfetto vademecum per ogni melodic
rocker degno di questo appellativo.
Con uno start al cardiopalma di
questo calibro, il resto del disco potrebbe benissimo perdere mordente
ed interesse, ed invece prima la più quadrata e lineare I Can't Get Over
You, che ci presenta una band alle prese con innumerevoli digressione
melodic rock di stampo svedese (Stage Dolls meets Treat), e poi
l'adrenalinica She's On Fire, dal ritmo vagamente progressivo,
restituiscono credibilità alla band che infoltisce il proprio spettro
sonoro grazie a continue iniezioni continue in campo prettamente pomp
rock, così che, sia il mid tempo di Christine che la ballad
strappalacrime Take These Chains, davvero emozionante, avvicinano
sensibilmente i Red Dawn ai seminali Survivor, Journey, Foreigner e Bad
Company. Un disco di una maturità disarmante registrato da una grande
band che, come la storia ci insegna, si sfalderà in mille altri progetti
musicali senza senso, lasciandoci il rimpianto di pensare a quello che
poteva essere, e che invece non è stato.
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