Eric Martin, un nome prestigioso per i veri cultori della scena hard
rock mondiale, sinonomo di qualità e duttilità compositiva, insomma un
interprete che, sin dalla più giovane età, ci ha allietato con dei
lavori degna della massima attenzione che, il più delle volte, hanno
rappresentato delle vere e proprie pietre miliari del genere melodico
per eccellenza. Sicuramente quelli che stanno leggendo questa
recensione, conosceranno il buon Eric come lead vocalist della all star
band dei Mr. Big, band con la quale il nostro ha comunque ottenuto i
maggiori riconoscimenti su scala internazionale grazie ad hit del
calibro di “To be with you” o della cover di Cat Stevens “Wild world”,
mentre pochi saranno a conoscenza di questa Eric Martin Band primo e
vero ensamble con il quale il singer originario di San Francisco si
presentò al grande pubblico con un album che, nonostante le enormi forze
messe in campo dalla Elektra records, produzione a cura del supervisore
Kevin Elson e una band di ben sei elementi, fra i quali figurava il
futuro drummer dei Tesla Troy Lucchetta, non servirono a far decollare
un platter che, di li a poco, sarebbe presto finito fuori catalogo.
Un album intriso di sonorità che si trovano a metà strada fra echi
melodic rock a la Triumph meets Loverboy, e sferzate più energetiche che
comunque non distano tanto dal sentiero tracciato dai maestri americani
del genere melodico come Toto, Foreigner e Journey naturalmente, ecco
cosa si può trovare dietro i solchi di quest’ottimo disco, non un
capolavoro assoluto, per carità, ma un platter onesto e sincero, da
ascoltare con passione e da rivalutare sicuramente.
Unico parto discografico di questa band estemporanea, due anni più tardi lo stesso Martin si ripresento su etichetta Capitol facendosi accompagnare da musicisti da studio, questo “Sucker for a pretty face” presenta un lotto di composizioni che sembrano l’ottimo viatico fra il soft hard rock da classifica, più comunemente chiamato “arena rock”, e l’hard rock mainstream che di li a poco avrebbe spopolato nell’America di metà anni ottanta, il tutto sormontato da un songwriting maturo ed eterogeneo che, nonostante risenta in maniera abbastanza evidente dell’influenza seventies, cerca in qualche maniera di anticipare il manierismo compositivo frizzante ed edulcorato che, come ci insegna la storia, avrebbe portato al successo i vari Bonjovi, Brian Adams e compagnia bella.
Eterogeneo dicevamo, si, anche perchè pur potento contare su una
buona verve compositiva, questo disco non si adagia mai sugli allori,
fornendo di continuo un buon numero di ottimi spunti che fanno di song
come l’up tempo “Just another boy”, che si trascina dietro l’influenza
del soft hard rock dei primi Boston e degli Orion di “The hunter”,
dell’Aor cromato di “Catch me if you can”, o dell’irresistibile”Young at
heart”, tipico fenotipo di hard rock song da classifica coin tanto di
refrain Foreigner oriented, dei classici minori del genere.
Di tutt’altra levatura invece l’humus che traspare dalle note della
ruffiana “Private life” techno/pop rock molto vicino ai Chicago più duri
tanto quanto al Billy Joel più intimista, o l’energetico melodic rock
di “One more time” con le sue chitarre graffianti che disegnano
affreschi sonori intensi e pregni di melodia, oppure l’immancabile
ballad “Letting it out” dove la voce sensuale e toccante del buon Eric
si ritaglia naturalmente una parte importante.
Ma nonostante gli ottimi presupposti, questo primo full
lenght albm fallì clamorosamente nel suo intento e che, solo per qualche
tempo, portò il vocalist in questione alla corte dei Van Halen del
periodo after Lee Roth, i quali come certo saprete, gli preferirono il
più stagionato ed all’epoca più conosciuto Sammy Hagar, ele mento che da
solo può farvi comprendere dell’enorme potenziale di cui dispongono
queste affascinanti e suadenti dieci song da riscoprire e rivalutare con
la ponderatezza e la maturità che da sempre contraddistingue i rockers
più stagionati. Se lo trovate fatelo vostro!!!
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